L ostetricia degli Aztechi
L'ostetricia degli Aztechi
di Hans Dietschy
Dalla “rivista Ciba”
numero 35, Milano, Giugno 1952, anno VI, pagine 1186-1188.
L’ostetricia degli Aztechi e in generale dei popoli amerindi è molto interessante sotto parecchi punti di vista. I Teochichimeca degli altipiani stepposi del Messico settentrionale, un popolo tipicamente nomade che viveva di caccia, erano costretti dal loro stesso genere di vita a una terapia estremamente semplice e sbrigativa, a piantare cioè una freccia in gola ai malati che non si. decide- vano a morire e ai vecchi che si lamentavano dei loro acciacchi. Riferiscono gli Aztechi che alle donne incinte i Teochichimeca usa vano scaldare il dorso e poi innaffiarlo, attuando cosi un trattamento diaforetico che presenta qualche punto di contatto con quello molto meno rudimentale delle ostetriche azteche. Si racconta inoltre che, in presenza d’una emorragia da secondamento, quei nordici cacciatori si accontentassero di trattare la puerpera con qualche pedata, per poi riprendere il cammino.
E’ inutile dire che di fronte a questi metodi ben diversa, e molto superiore, si presentava l’atte ostetrica praticata nelle progredite città del mezzogiorno. Quando la donna a una famiglia notabile entrava nel quinto mese di gravidanza, gli anziani richiedevano l’assistenza d’una ostetrica (ciuatl temixiuitl) che, implorata la protezione di Tlazoltéotl, dea dei bagni e delle medicine, sottoponeva la gravida a una serie di bagni sudoriferi nella stufa. Durante e dopo il trattamento diaforetico, quando fosse stata costatata una cattiva posizione del feto, l’ostetrica praticava un massaggio correttivo all’addome e rinunciava per lo più alla verberazione con foglie di mais, abitualmente praticata al bagnante per meglio attivare la rivulsione. Altro riguardo usato alla gravida durante il soggiorno nella stufa era una temperatura inferiore alla abituale «affinché il bambino non s’incolli al ventre La vita giornaliera della gestante era poi regolata fin nei minimi dettagli. Essa doveva guardarsi nel modo più assoluto dal digiuno e nutrirsi al contrario di cibi abbondanti e accuratamente preparati, seguendo cioè una dieta chiamata «lavare i piedi del bambino ». Alla gravida — e qui ricordiamo che il nostro discorso verte sovra una donna altolocata appartenente a un popolo civile lavorare troppo, di sollevare pesi eccessivi e di correte; le si doveva poi evitare il minimo spavento, allo scopo di diminuire le possibilità di aborto. Altri precetti avevano invece un carattere superstizioso: cosi, la donna incinta doveva far attenzione a non scaldarsi troppo al sole o al fuoco, per non deformare la faccia del bambino. Ogni suo desiderio andava accontentato nei limiti del possibile, sempre per evitare danni al nascituro. Perché il feto non avesse ad assumere una situazione trasversale, la madre doveva rifuggire con ogni cura dalla vista di oggetti rossi. Con ciò abbiamo ricordato soltanto pochi esempi della lunga serie di prescrizioni a carattere superstizioso. La levatrice consigliava poi di continuare, ma in misura moderata, l’uso del coito anche dopo il terzo mese di gravidanza: l’astinenza totale, che andava invece rigorosamente osservata nel periodo precedente il parto, avrebbe infatti potuto indebolire il bambino.
Nell’imminenza del lieto evento, l’assistenza dell’ostetrica si intensifica sempre più: ormai essa abita in permanenza nella casa della gestante e talvolta si associa altre colleghe nella cura; quando poi iniziano le doglie, lava il corpo e la testa della partoriente e si addossa la preparazione delle vivande. Intensificandosi le doglie, sottopone la sua assistita a un bagno sudatorio e alla somministrazione dei rimedi ad azione ossitocica: una bevanda a base di radici tritate di ciuapatli (“medicina delle donne “, appartenente alla famiglia delle Composite, Eriocoma?), seguita da mezzo dito di coda tritata di opossum (didelphus; azt.: tlaquatzin), cui s’attribuivano straordinarie proprietà peristaltiche (una coda intera avrebbe provocato l’espulsione degli intestini al completo!). All’atto della nascita la levatrice lancia le grida di guerra, perché gli Aztechi equiparavano la partoriente al combattente che ha catturato un prigioniero. Tagliato il cordone ombellicale e sotterrata la placenta in un angolo della casa, la levatrice rivolge sottovoce le preghiere di rito alla dea dell’acqua corrente Chalchiutlicue (“colei vestita di gemme”) e procede al bagno del neonato: soffia dapprima sull’acqua, ne fa bere una goccia al bambino, gli bagna il petto, la nuca e la testa, lo immerge completamente nell’acqua e infine lo fascia.
Naturalmente, la levatrice aveva occasione di dar prova della sua abilità nei casi di distocia. Quando malgrado la somministrazione d’un potente ossitocico composto di un intero dito di coda d’opossum e di polvere di semi di Salvia chia (azt.: cbian) impastati con acqua il feto tardava a venire alla luce, la levatrice scuoteva la testa della partoriente, la metteva in posizione eretta, le picchiava il dorso con mani e piedi, e la invitava a contrarre il torchio addominale. Se l’espulsione si faceva attendere malgrado queste misure, portava la partoriente della camera da bagno e la sottoponeva al massaggio, cercando d’impartire al feto una posizione corretta. Infine, dimostratisi vani tutti questi tentativi, la levatrice si rivolgeva con la preghiera alla dea Ciuacòuatl (“serpente Femminile”) — ritenuta la donna che aveva partorito per prima e quindi raffigurata nelle statuette d’argilla con un bambino in braccio — alla dea Tlazoltéotl e ad altre divinità. Quando poi una levatrice esperta diagnosticava la morte del feto in base alla cessazione d’ogni movimento all’interno dell’addome, tentava di salvare almeno la vita della madre e pertanto, ottenuta l’autorizzazione dei parenti, praticava l’embriotomia introducendo nell’utero un coltello d’ossidiana.
Secondo la mitologia azteca, la donna che moriva di parto malgrado le cure delle persone dell’arte, era una mociuaquetzqui, Una “donna che s’eleva in cielo” e andava ad abitare la regione di ponente, scortando ogni giorno il sole fino all’occaso. Con ciò, la donna morta di parto entrava nel novero delle pericolose “donne divine” (ciuatéteo): Il suo cadavere veniva inumato nei templi dedicati a queste divinità e in essi giungeva portato a spalla dal marito, quasi la donna fosse caduta in combattimento. Il corteo funebre era scortato da tutte le vecchie levatrici che, armate della spada d’ossidiana e dello scudo, lanciavano grida di guerra per allontanare i maghi che cercavano d’impossessarsi dell’avambraccio sinistro della morta a scopo d’ipnosi e di magia.
Tosto espletato il parto, entrava abitualmente in scena il divinatore, che prediceva il destino del neonato consultando il calendario. Del calendario e della sua importanza nella vita degli Aztechi, abbiamo già parlato a più riprese; ma non possiamo chiudere la nostra esposizione senza ricordare, a guisa d’appendice, un interessante monumento di questa antica civiltà: la « pietra del calendario » del Museo nazionale messicano, che rispecchia fedelmente la concezione azteca del tempo e dello spazio. Scolpito in un grosso blocco di porfido, questo celebre rilievo a forma di disco (del diametro di tre metri e mezzo abbondanti) proviene dall’antica zona dei templi della Città di Messico. Si tratta probabilmente di un’opera non finita, e precisamente d’un bacino per raccogliere il sangue delle vittime sacrificate. Al centro del disco si trova il volto di Tonàtiu (“calore ambulante”), dio del sole, circondato dal segno annuale dell’età attuale del mondo, e precisamente la quinta (“4 movimento “). Le quattro braccia di questo ideogramma, corrispondenti ai quattro punti cardinali, portano i segni an-nuali (delimitati da margini rettangolari) delle quattro età precedenti, tutte concluse da catastrofi e cosi succedutesi (cominciando dall’alto a destra e proseguendo in senso contrario alle lancette dell’orologio): «4 giaguaro» (= la terra), «4 vento a, «4 pioggia (di Fuoco)”, «4 acqua ». Questa rappresentazione cosmogonica è circondata da un anello contenente i venti segni dei giorni del «mese » messicano. Segue, concentricamente, un altro anello a carattere decorativo, formato da raggi solari stilizzati. In basso si trovano poi due dragoni fiammeggianti, dalle cui fauci spalancate sporgono due volti umani: il dio del fuoco e il dio del sole.
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