A lezione dagli italiani per far rinascere Ur

Corriere della Sera 18.7.11
A lezione dagli italiani per far rinascere Ur
Il capo-progetto: «Così formiamo i nipotini iracheni del metodo Brandi»
di Paolo Conti

ROMA— «Qui siamo tutti figli di Cesare Brandi. E così i nostri allievi iracheni, in qualche modo, diventano i suoi nipoti...» . Ma cosa c’entra il fondatore dell’Istituto centrale del restauro, il raffinato teorico della tutela preventiva del Patrimonio, con l’Iraq e i suoi conflitti? Alessandro Bianchi, storico dell’arte restauratore (suo il ripristino decennale della cripta del duomo di Anagni, XII e XIII secolo), 59 anni di cui 25 trascorsi al ministero per i Beni culturali, è abbronzatissimo. Macché mare, è il sole cocente della terra irachena. Da mesi Bianchi si è trasformato in un pendolare tra l’Italia e l’Iraq. È il capo progetto di una missione unica nel suo genere: formare nuove leve di restauratori iracheni. Trasferire a Bagdad, a Erbil e nel sito archeologico di Ur il sapere della scuola italiana di restauro, la più prestigiosa del mondo. Lavorare perché in futuro non ci sia più bisogno di un caposquadra italiano per pilotare una squadra impegnata in territorio iracheno. L’operazione è riuscita alla fine di giugno, chiudendo un semestre di studi teorici e pratici. Bianchi è in questi giorni di nuovo in Iraq per consegnare i sei diplomi ad altrettanti allievi che, nei prossimi mesi, avvieranno un’impresa imponente: il restauro delle strutture murarie del sito archeologico sumero di Ur, 26esimo secolo avanti Cristo, leggendaria patria del patriarca Abramo, a pochi chilometri da Nassiriya. Il «metodo Brandi» (illustrato nel famoso saggio «Teoria del restauro» , uscito nel 1977) è stato spiegato nel cantiere-laboratorio del tempio Ekishnugal, ovvero «Tempio in cui non entra la luce» dedicato al dio-Luna Nannar, costruito da Ur-Namma nel XXI secolo e già restaurato ai tempi di Ciro il Grande nel V secolo avanti Cristo. Spiega Bianchi: «Il problema di Ur è la conservazione delle strutture in mattone cotto. Il sito è rimasto perfettamente conservato sotto terra fino al 1922 quando Leonard Wooley, con una missione congiunta del British Museum e dell’università della Pennsylvania, scavò per dodici anni riportando alla luce gli straordinari ori che conosciamo. Ma da allora le forti piogge invernali e le altissime temperature estive, anche 55 gradi, hanno devastato i resti archeologici» . Il colpo di grazia è arrivato negli anni del conflitto: completo abbandono, incuria, impossibilità di costruire persino un tetto che, da solo, avrebbe già arginato la lenta scomparsa di un sito unico al mondo. Invece l’Italia ha una straordinaria banca dati scientifica in materia di mattone cotto, di tutti i secoli. Il corso teorico si è svolto nell’Unità di supporto alla ricostruzione di Nassiriya, la struttura internazionale coordinata dalla Task Force Iraq del ministero degli Esteri in raccordo con l’ambasciata d’Italia a Bagdad, guidata da Gerardo Carante. Ora a Ur lavoreranno solo i restauratori iracheni, sotto la guida di Abdul Amir Hamdani, capo iracheno degli uffici culturali di Nassiriya, con alle spalle lunghi studi negli Stati Uniti. La missione italiana per Ur è frutto di un’intesa tra la direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri, guidata da Elisabetta Belloni, e il ministero per i Beni culturali, attraverso il segretariato generale di Roberto Cecchi e l’Istituto centrale per il restauro. La Farnesina ha messo a disposizione due milioni di euro in due anni per un programma che riguarda non solo Ur ma anche l’Istituto iracheno di conservazione delle antichità e del patrimonio di Erbil e il museo archeologico di Bagdad. Ad Erbil, racconta Bianchi con molto entusiasmo, è accaduto qualcosa di straordinario: «Abbiamo aperto corsi per la conservazione del libro, per la tutela e il restauro degli avori e dei metalli archeologici. Avevamo immaginato sei posti: lentamente sono arrivate domande da tutto l’Iraq e siamo stati costretti a chiudere a quota diciannove. L’aspetto più interessante è che, tra gli allievi, abbiamo avuto ben due studiosi provenienti dal santuario sciita dell’Imam Hussein a Kerbalah: si tratta di Alaa Ahmed Abboud Diaa Eddin e di Hassenin Rahman Abdallah. Anche da Kerbalah, insomma, vengono a studiare i nostri metodi...» . Ad Erbil i corsi sono stati organizzati nella nuovissima sede dell’Istituto iracheno di conservazione, costruita con un contributo di 15 milioni di dollari degli Stati Uniti. Infine c’è la prospettiva di una parziale ristrutturazione del Museo Archeologico di Bagdad. Il progetto Esteri-Beni culturali è stato seguito con grande attenzione, al ministero guidato da Giancarlo Galan, oltre che dal segretario generale Cecchi anche da Giuseppe Proietti e Patrizio Fondi, consiglieri speciali del ministro per i Beni Culturali rispettivamente per i restauri all’estero e per gli aspetti diplomatici. Commenta Elisabetta Belloni, direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo della Farnesina: «L’Italia sa bene quanto sia importante la ricostruzione e la stabilizzazione dell’Iraq per la sicurezza di quel quadrante geo-politico. L’Iraq ha da sempre un ruolo di punta nel settore culturale, così come lo ha l’Italia. Siamo, di fatto, due superpotenze nell’ambito del patrimonio archeologico mondiale. La collaborazione culturale diventa quindi strategica e sinergica rispetto ad altre attività che vedono impegnata l’Italia in quel Paese» . Ammette Bianchi: «Sì, proviamo un legittimo orgoglio quando lavoriamo in Iraq in questo settore. Avvertiamo che l’Italia viene percepita come un riferimento internazionale nel campo del restauro, della tutela, della conservazione del retaggio culturale» . Ma sì, anche Brandi sarebbe orgoglioso. Quel suo metodo così severo e sobrio (per esempio, intervenire solo con la stessa materia di cui è composto un bene, e mai con altro) ha vinto una guerra in cui le armi non hanno alcun senso. Ora il metodo Brandi sfida, lontano dall’Italia, i 26 secoli di storia di Ur, patria di Abramo.

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