Palikè, in territorio di Mineo, era il più importante santuario della popolazione sicula

Palikè, in territorio di Mineo, era il più importante santuario della popolazione sicula
Pinella Leocata
LA SICILIA Domenica 24 Luglio 20112

Abitato già dalla preistoria a Rocchicella davanti al «misterioso» lago che respirava

Nostro inviato
Mineo. Palikè, in territorio di Mineo, era il più importante santuario della popolazione sicula antecedente la colonizzazione greca. Un'area sacra dedicata al culto delle divinità ctonie già a partire dal paleolitico e poi ancora nei millenni successivi fino all'età arcaica, greca e romana. L'area rituale, e gli edifici ad essa connessi, si estendeva lungo il declivio di una collina di roccia vulcanica iblea, precedente all'emersione dell'Etna, caratterizzata da materiale più morbido, e dunque scavabile per le sepolture, e ricco di inclusioni delle cosiddette pillow lave, calcare con selce.
Un culto antichissimo la cui origine è legata a fenomeni vulcanici che le popolazioni arcaiche interpretavano come manifestazione della divinità e, in particolare, dei fratelli Palici, secondo i greci figli di Thalia e Zeus, ma, per la tradizione arcaica, figli del dio Adrano. La rocca sacra - Rocchicella - si ergeva al centro della valle del Margi, fiume allora navigabile, e si affacciava sui laghetti di Naphtia interessati a fenomeni subvulcanici per cui l'anidride carbonica, risalendo dal sottosuolo, creava bolle e soffioni. Tutt'intorno alture coperte di boschi di querce, ulivi, lecci, frassini. Un posto d'incantevole bellezza secondo la tradizione letteraria cui fanno riferimento Eschilo, Virgilio, Ovidio, Silio Italico. Un luogo che Diodoro Siculo, nato ad Agira e vissuto a cavallo tra il I secondo avanti Cristo e il I secolo d. C., descriveva come di grande suggestione per la forza e la violenza con cui l'acqua si sollevava. «Il recinto sacro - scriveva - è situato in una pianura degna di una divinità». Qui si consultava l'oracolo, qui si svolgevano processi, qui si dava diritto d'asilo agli schiavi fuggiti a padroni particolarmente crudeli.
Di tanta arcadica bellezza non resta nulla a causa della feroce deforestazione, del cambiamento climatico del XIV secolo, e poi, sotto il fascismo e ancora negli anni Cinquanta, della bonifica dei laghetti di cui resta memoria nei suggestivi acquerelli settecenteschi di Houel e in una foto del 1888. Il fiume è sbarrato e ormai secco e la pianura riarsa e assolata, soprattutto d'estate. Dei boschi e degli animali che vi abitavano - cervi, cavalli, buoi - non rimane nulla, soltanto aride alture. Gli Erei a nord e il Tavolato Ibleo a sud delimitano la pianura, una delle zone a più alto rischio sismico di Sicilia perché è qui che si confrontano e scontrano la placca Africana e quella Euro-Asiatica. Questa valle, il corridoio che collegava le coste dello Jonio al canale di Sicilia, era un territorio strategico e, proprio per questo, nei secoli, è stato sempre oggetto di conquista e di controllato, come dimostrano le più tarde fortificazioni sulle alture: il castello di Serravalle, di Monte Catalfaro e di Mongialino.
In questo territorio ricco di testimonianze geologiche, naturalistiche, archeologiche e storiche - territorio conosciuto già nel Cinquecento, come si evince dai testi di Tommaso Fazello - a partire dal 1995 viene avviato uno scavo per riportare alla luce i resti del «santuario» dei Palici. A condurlo è Laura Maniscalco, oggi direttore del «Parco archeologico del Calatino» di cui il sito di Palikè è il cuore per gli insediamenti che vi si sono stratificati a partire dal paleolitico superiore, cioè dal 12/11.000 avanti Cristo, fino all'età greca, romana e poi medievale e ancora fino al Cinquecento e al Settecento. E' in questo secolo che fu edificata la masseria Interlandi dove ora hanno sede il museo, le aule didattiche, il laboratorio di restauro archeologico, gli uffici, la biglietteria dell'area archeologica. Un sito di grande interesse per raggiungere il quale - assurdo, ma vero - non c'è alcuna segnalazione lungo il percorso, neanche con cartelli provvisori. La sovrintendenza, e ora la direzione del «parco», non hanno ancora spuntato l'autorizzazione dell'Anas che, tra l'altro, «chiede un cospicuo esborso di euro per realizzare la segnaletica».
L'area di scavo è relativa soprattutto alla collinetta dove sono ben visibili tombe a grotticella, cioè scavate nella roccia, collegate da gradini scolpiti nella pietra. Sulla sommità sono state ritrovate le varie fasi della città di Palikè, quella di età arcaica, tra il VII e il VI secolo avanti Cristo, e quella di età classica, del V e IV secolo a. C. Una cittadella a servizio del tempio dove abitavano le famiglie dei sacerdoti e gli artigiani che realizzavano gli oggetti votivi che venivano venduti all'ingresso della zona sacra e poi offerti alle divinità. Davanti all'edificio a più stanze dove venivano accolti i pellegrini, costruito sul fianco della collina con un colonnato che si affacciava sui laghetti di Naphtia, è stato trovato un pozzetto votivo dove venivano versate le offerte liquide, quali il latte e il vino, e gettati i resti degli animali immolati e bruciati, come richiedeva il rito. L'edificio è stato costruito una prima volta in età arcaica e poi riedificato nel V secolo a. C., come buona parte delle strutture ritrovate, alzate su precedenti edifici di epoca arcaica e persino neolitica di cui è rara testimonianza un pavimento in terracotta. In alto, quasi a ridosso della grotta che si apre dentro la collina, è stata ritrovata una «sala dei banchetti» di notevole fattura con resti di intonaci colorati, ora in corso di restauro. La grande grotta, utilizzata per migliaia di anni da pastori, finora non è stata scavata se non per un saggio fatto da Luigi Bernabò Brea che trovò subito un piano roccioso deducendo che non ci fossero stratificazioni archeologiche. Non è da escludere, invece, che lo strato roccioso possa essere il crollo della volta al di sotto del quale possano trovarsi ulteriori tracce del passato.
E del resto della vasta area di 25 ettari è stata scavata solo una piccola parte. Il terreno e le masserie furono donati dalla nobildonna Agata Interlandi, della famiglia Grimaldi, ad un'opera pia da cui la Regione l'ha espropriata negli anni scorsi. Quanto è stato ritrovato nelle campagne di scavo è ora in mostra nel piccolo e interessante museo che racconta la lunga e suggestiva storia del luogo, dagli oggetti votivi fatti a pezzi dopo il rito perché non fossero riutilizzabili, alle ossa d'animale bruciate. Anche il consumo della carne, infatti, era ritualizzato, un tipo di nutrimento concepito soltanto nell'ambito di un rito sacro. Nelle bacheche, dentro coppe di terracotta, sono esposti anche alcuni acini d'uva secchi, ritrovamento rarissimo negli scavi di terra, e poi semi di cicerchia, di farro e di legumi coltivati nella zona, e ancora gusci di telline. Esposti anche alcuni singolari pezzi del IV secolo a. C.: una faccia in pasta vitrea di origine fenicia, un cinturone in metallo di tipo sannita e fibule celtiche, segno della presenza di soldati mercenari nella valle per il cui controllo si lottava senza riserve. E ancora. Nelle teche del museo sono esposte le matrici delle figurine votive, grandi tegole in terracotta, e piccole schegge della cosiddetta «ossidiana di Roccella», cioè le parti vetrose del «pillow lave» di cui è ricca la roccia vulcanica iblea, così come di materiale ferroso. Ed è per questo che i tombaroli, muniti di metal detector, illudendosi di trovare delle monete, si lanciano in ripetuti, dannosi e per loro inutili scavi clandestini che, di notte, «accompagnano» quelli archeologici.
Paliké è un luogo ricco di storia e cultura e come tale è visitato da numerose scolaresche e da archeologi provenienti da ogni parte del mondo. Più difficile farlo rientrare in un circuito culturale e turistico se non si attiva una rete che inserisca questo, come gli altri siti archeologici, all'interno di un unico e vario percorso naturalistico e culturale. Tanto più a luglio e ad agosto quando l'aria è torrida e il sito chiuso nei giorni festivi per mancanza di custodi, l'annoso problema di sempre. Che poi il sito non sia neppure segnalato in tutta la zona suona come un'offesa alla nostra storia e al lavoro di tanti per farla riemergere da un lontano e dimenticato passato.

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