Da un picchio a un popolo: storia e ricchezze dei Piceni
l’Unità 15.6.08
Nelle Marche. A Matelica «Potere e splendore» restituisce un volto a una civiltà cancellata dai romani
Da un picchio a un popolo: storia e ricchezze dei Piceni
di Marco Innocente Furina
Finora erano solo un’ombra. Un nome o poco più. Narra la leggenda che raggiunsero le loro sedi storiche durante una Ver sacrum (primavera sacra), una migrazione rituale in cui i giovani della tribù andavano alla ricerca di nuove terre. Li condusse là, sull’Appennino che guarda l’Adriatico il loro animale totem, il picchio. Picus, in latino da cui Piceni, Picenti, Picentini. Ovvero i giovani del Picchio. Lo stesso uccellino che ora appare sulla stemma della regione Marche. Forse là, sul medio Adriatico, c’era già qualcuno ad attenderli, un’ancora più misteriosa civilizzazione orientale. I Pelasgi sono quasi un fantasma, ma nel nome di Ascoli i linguisti ritrovano echi dell’antica Anatolia. Chissà.
Occuparono le terre che vanno dall’attuale provincia di Pesaro sino a quella di Teramo in Abruzzo, poi, dopo la conquista romana, se ne persero le tracce, ma ora questa bella esposizione organizzata nelle Marche nell’entroterra maceratese - Potere e splendore. Gli antichi Piceni a Matelica - restituisce loro un volto. Ne emerge una civiltà originale, ricca, a tratti fastosa, pienamente inserita nella vita e nei traffici mediterranei di quei tempi lontani. Bronzi di tutti i tipi, monili, armature, scudi, elmi, lance, carri di battaglia, scettri finemente intarsiati raccontano di una popolo guerriero che ambiva a imitare il lusso e gli stili di vita dell’aristocrazie etrusche e greche della Penisola con cui erano da poco entrati in contatto. Ecco allora, da una sepoltura femminile provenire un’olla gigante, vasi, raffinati attrezzi bronzei per la cucina, un’onoichoe, una sorta di brocca decorata. Il tumulo di un principe-guerriero ci restituisce le immancabili armi, coltelli impreziositi da manici d’avorio lavorati, che ci parlano di scambi con paesi lontani, un carro da battaglia, due levrieri che riposano accanto al giovane principe sacrificati nella speranza di chissà quali cacce ultraterrene. Lo stile dei reperti è quello internazionale del tempo, detto orientalizzante: quando quel popolo aprì gli occhi sulla storia, fu abbagliato dalle grandi civiltà del vicino oriente e ne mutuò le espressioni formali. Come gli etruschi loro vicini o i greci che solcavano il mare fino ad Ancona e Numana.
Reperti sono affiorati in grande quantità un po’ dappertutto in questa vallata appenninica ricca di acque e di miele, coltivata a vigna, frutteti e grano. I più solerti negli scavi furono al solito i tombaroli. Si raccontano in paese strane storie, di ritrovamenti casuali: una trentina d’anni fa giocando a «ruzzola», la ruota si perse dietro un cespuglio. Dalle fratta riemerse pure una statuetta di bronzo, poi venduta per tre pezzi di stoccafisso… Ma per fortuna qui si è saputa e voluta scrivere un’altra storia. Il sindaco-archeologo di Matelica, Patrizio Gagliardi è riuscito a far passare nei regolamenti comunali una norma che prevede la presenza obbligatoria dei funzionari della Soprintendenza per ogni nuovo lavoro di scavo. E così man mano che la città s’espandeva e i sepolcri circolari degli antichi Piceni venivano alla luce a centinaia, gli archeologi hanno potuto salvare e catalogare i reperti. Così è nato il museo archeologico della cittadina quattro anni fa. «Archeologia preventiva», l’hanno chiamata. Solo buon senso verrebbe da dire, se l’amore per la storia non fosse merce rara nel nostro paese. E anche grazie a questa sensibilità che gli antichi Piceni non sono più solo un nome sui libri di storia o una mera indicazione geografica. La ricchezza delle scoperte in questa valle angusta, stretta tra due fila di monti, aggiunge un nuovo tassello alla nostra conoscenza della protostoria italica e fa di questa cittadina una tappa obbligata per la comunità scientifica. E infatti la mostra è già stata richiesta da alcuni dei più importanti musei archeologici d’Europa, un bel biglietto da visita per la regione. Anche perché in un vaso sono stati trovati semi di vite, che dimostrano l’antichità della vocazione vitivinicola delle colline marchigiane. E qui sono già tutti sicuri: non può trattarsi che del nostro verdicchio.
Potere e splendore Gli antichi Piceni a Matelica
Matelica Palazzo Ottoni Fino al 31 ottobre
Nelle Marche. A Matelica «Potere e splendore» restituisce un volto a una civiltà cancellata dai romani
Da un picchio a un popolo: storia e ricchezze dei Piceni
di Marco Innocente Furina
Finora erano solo un’ombra. Un nome o poco più. Narra la leggenda che raggiunsero le loro sedi storiche durante una Ver sacrum (primavera sacra), una migrazione rituale in cui i giovani della tribù andavano alla ricerca di nuove terre. Li condusse là, sull’Appennino che guarda l’Adriatico il loro animale totem, il picchio. Picus, in latino da cui Piceni, Picenti, Picentini. Ovvero i giovani del Picchio. Lo stesso uccellino che ora appare sulla stemma della regione Marche. Forse là, sul medio Adriatico, c’era già qualcuno ad attenderli, un’ancora più misteriosa civilizzazione orientale. I Pelasgi sono quasi un fantasma, ma nel nome di Ascoli i linguisti ritrovano echi dell’antica Anatolia. Chissà.
Occuparono le terre che vanno dall’attuale provincia di Pesaro sino a quella di Teramo in Abruzzo, poi, dopo la conquista romana, se ne persero le tracce, ma ora questa bella esposizione organizzata nelle Marche nell’entroterra maceratese - Potere e splendore. Gli antichi Piceni a Matelica - restituisce loro un volto. Ne emerge una civiltà originale, ricca, a tratti fastosa, pienamente inserita nella vita e nei traffici mediterranei di quei tempi lontani. Bronzi di tutti i tipi, monili, armature, scudi, elmi, lance, carri di battaglia, scettri finemente intarsiati raccontano di una popolo guerriero che ambiva a imitare il lusso e gli stili di vita dell’aristocrazie etrusche e greche della Penisola con cui erano da poco entrati in contatto. Ecco allora, da una sepoltura femminile provenire un’olla gigante, vasi, raffinati attrezzi bronzei per la cucina, un’onoichoe, una sorta di brocca decorata. Il tumulo di un principe-guerriero ci restituisce le immancabili armi, coltelli impreziositi da manici d’avorio lavorati, che ci parlano di scambi con paesi lontani, un carro da battaglia, due levrieri che riposano accanto al giovane principe sacrificati nella speranza di chissà quali cacce ultraterrene. Lo stile dei reperti è quello internazionale del tempo, detto orientalizzante: quando quel popolo aprì gli occhi sulla storia, fu abbagliato dalle grandi civiltà del vicino oriente e ne mutuò le espressioni formali. Come gli etruschi loro vicini o i greci che solcavano il mare fino ad Ancona e Numana.
Reperti sono affiorati in grande quantità un po’ dappertutto in questa vallata appenninica ricca di acque e di miele, coltivata a vigna, frutteti e grano. I più solerti negli scavi furono al solito i tombaroli. Si raccontano in paese strane storie, di ritrovamenti casuali: una trentina d’anni fa giocando a «ruzzola», la ruota si perse dietro un cespuglio. Dalle fratta riemerse pure una statuetta di bronzo, poi venduta per tre pezzi di stoccafisso… Ma per fortuna qui si è saputa e voluta scrivere un’altra storia. Il sindaco-archeologo di Matelica, Patrizio Gagliardi è riuscito a far passare nei regolamenti comunali una norma che prevede la presenza obbligatoria dei funzionari della Soprintendenza per ogni nuovo lavoro di scavo. E così man mano che la città s’espandeva e i sepolcri circolari degli antichi Piceni venivano alla luce a centinaia, gli archeologi hanno potuto salvare e catalogare i reperti. Così è nato il museo archeologico della cittadina quattro anni fa. «Archeologia preventiva», l’hanno chiamata. Solo buon senso verrebbe da dire, se l’amore per la storia non fosse merce rara nel nostro paese. E anche grazie a questa sensibilità che gli antichi Piceni non sono più solo un nome sui libri di storia o una mera indicazione geografica. La ricchezza delle scoperte in questa valle angusta, stretta tra due fila di monti, aggiunge un nuovo tassello alla nostra conoscenza della protostoria italica e fa di questa cittadina una tappa obbligata per la comunità scientifica. E infatti la mostra è già stata richiesta da alcuni dei più importanti musei archeologici d’Europa, un bel biglietto da visita per la regione. Anche perché in un vaso sono stati trovati semi di vite, che dimostrano l’antichità della vocazione vitivinicola delle colline marchigiane. E qui sono già tutti sicuri: non può trattarsi che del nostro verdicchio.
Potere e splendore Gli antichi Piceni a Matelica
Matelica Palazzo Ottoni Fino al 31 ottobre
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