Butovo, una Katyn alle porte di Mosca

il Riformista 12.4.09
Butovo, una Katyn alle porte di Mosca
di Ubaldo Casotto

Fosse comuni. In Russia sono oltre seicento. Dal 1918 al 1953 sono state fucilate 826.645 persone. Lidija Golovkova, musicista e professoressa d'arte, ha scoperto per caso una di queste fosse, con 20mila corpi. E, novella Antigone, ha deciso di consegnare alla nostra memoria la storia di quei martiri, uno per uno.

Ho finalmente visto "Katyn". Il film di Andrzej Wajda sulla strage di circa ventimila soldati polacchi, tra cui 4.500 ufficiali, perpetrata dai russi nell'aprile-maggio 1940. Furono tutti uccisi con un colpo alla nuca e gettati "alla rinfusa in fosse comuni" come annota nel suo diario personale il ministro tedesco per la propaganda Joseph Gobbels, alla data del 9 aprile 1943, dopo la scoperta dell'eccidio dei suoi ex alleati.
A vedere il film del grande regista polacco, fra parenti e amici, eravamo in otto. Io che mi sono laureato in filosofia agli inizi degli anni Ottanta e che conoscevo la storia, ma non perché l'avessi appresa su qualche manuale. Una professoressa di lettere in un istituto tecnico di Roma, che non ne sapeva niente. Mia figlia di diciassette anni, che ha già studiato due volte la Seconda guerra mondiale, in quinta elementare e in terza media. Una laureata in lettere e suo marito ingegnere che chiedevano lumi sulle date e sui luoghi. Una laureanda in magistero inconsapevole del fatto. Un laureato in giurisprudenza che sapeva, ma solo in virtù del suo mestiere di giornalista. E mio figlio di undici, l'unico assolvibile per la sua ignoranza, i nuovi programmi di storia per le elementari si fermano al Medio evo.
Questa premessa per dire che quello che viene chiamato maldestramente e con intento di accusa "revisionismo storico" - mentre è solo ricostruzione delle memoria censurata - ha purtroppo molto cammino da fare.
«Ancora Katyn? Ma le sappiamo da vent'anni queste cose…». Innanzitutto chiedetevi perché solo da vent'anni. In secondo luogo prendetevi la briga di entrare in una qualsiasi aula di una scuola superiore italiana o di una università, dite "Katyn" e contate le mani che si alzano per darvi una risposta. Rischiate percentuali più basse della mia comitiva cinematografica.
Ma non è di Katyn che volevo parlare, anche se consiglio a tutti di vederlo - se riescono a trovare un cinema che lo programmi, piuttosto acquistino una copia e orgnizzino proiezioni speciali. È non bello, bellissimo. Lento? Della doverosa lentezza e solennità della tragedia. Pesante? Uccidete ventimila persone con un colpo alla nuca e poi ditemi se vi sentite leggeri.
Non è di Katyn, dicevo, che voglio scrivere. Bensì di un'altra foresta, di altri boschi. Di un'altra voragine della memoria che va riempita. I boschi sono a sud di Mosca. Il posto si chiama Butovo. Qui nel 1937/38 vennero fucilate oltre ventimila persone.
Se sappiamo qualcosa di Butovo, lo dobbiamo a una sconosciuta donna russa, Lidija Golovkova. Nel suo "Liberi. Storie e testimonianze dalla Russia" (Bur, 176 pagine, 9 euro) Giovanna Parravicini la definisce «un'Antigone dei nostri giorni». Il libro è una raccolta di piccole biografia di protagonisti della vita russa del Ventesimo secolo (la pianista, il sacerdote, la scrittrice, il professore di filologia, la dattilografa del Samizdat…) conosciuti dall'autrice, che ha frequentato clandestinamente il dissenso russo fin dal 1979, e che ora vive e lavora a Mosca dove anima un centro culturale. Le sue sono storie di resistenza all'idelogia, di coraggio per la testimonianza della verità e quindi, paradossalmente - perché tutti questi personaggi, chi più chi meno hanno conosciuto la censura, il carcere, la Lubianka, gli interrogatori, il confino, il Gulag - un'esperienza di libertà.
Lidia Golovkova è una di questi "liberi". Adesso insegna Storia della Chiesa contemporanea presso l'Università ortodossa San Tichon, ma non era certo questa l'immagine che si era fatta della sua vita. Padre compositore e madre concertista di pianoforte, vive immersa nella musica fin da piccola, in un grande appartamento in coabitazione con altre famiglie perché il padre era partito per la guerra nel giugno 1941, due mesi dopo la sua nascita. Un'insegnante domestica scopre il suo talento pittorico e la indirizza alla famosa Scuola d'arte Surikov.
Inquieta, a diciott'anni riesce a farsi assumere in un circo dove si esibisce con dodici cani barboni e diciotto pappagalli indonesiani parlanti. Diplomata, diventa hostess e gira il mondo per tre anni. Poi torna alla pittura. In questo periodo, fine Sessanta inizio Ottanta, nulla sa del "dissenso" che cova sotto la vita ufficiale del mondo artistico che frequenta. È la condizione di tanti, della maggioranza delle persone, lei stessa ora si stupisce, leggendo le lettere fra suo padre e sua madre quando erano fidanzati, era il 1938, di come non ci fosse «neppure un accenno a quello che stava succedendo intorno… La verità è che, incredibilmente, la gente poteva non rendersi conto di niente».
Poi arriva la perestrojka e Lidija si ritrova senza mezzi, senza lavoro, senza soldi. La ventata di libertà del periodo riporta a galla una dimensione pubblica dell'annuncio cristiano rimasto fino allora nell'ombra. Lidija ritrova la fede. Inizia a insegnare in uno dei primi ginnasi ortodossi che riaprono. Nel tempo libero ritrae dal vero architetture d'altri tempi, spesso semidiroccate, per «fissare la memoria del passato». Costruisce una mappa di Mosca con i luoghi di questi edifici morenti: chiese monasteri, ville.
Un giorno, in una di queste sue perlustrazioni, accetta un passaggio in auto da un poliziotto che le parla di un'ex monastero. Lui ci ha fatto i corsi di polizia, era una prigione con una fama terribile. Giunto in prossimità del luogo il poliziotto però non la fa scendere, sta facendo buio, troppo pericoloso. Lidija scende alla stazione... e poi torna indietro a piedi, trova un varco nella recinzione ed entra nell'edificio. Scopre le celle, trova un proiettile... Tornerà di nascosto per mesi, e per mesi chiede notizie su quel posto. Invano. Finché un uomo nato in un lager le scioglie il segreto: «È la Suchanovka», l'ex eremo di Santa Caterina trasformato in prigione nel 1931, poi usato come luogo di tortura ai tempi di Berija; pochi ne sono usciti vivi.
Lidija inizia a cercare i sopravvissuti, i secondini e i torturatori. Riesce ad arrivare, tramite il rettore dell'università San Tichon, agli archivi della Lubjanka. Ci passa anni. Recupera i fascicoli di migliaia di vittime, ne ricostruisce la vita, l'arresto, la fine. Si rivolge anche al Memorial, l'associazione laica fondata da Sacharov all'epoca della perestrojka, tra loro e la San Tichon non corre buon sangue, ma Lidija riesce a farli lavorare insieme. Scopre due siti di fucilazione e sepoltura di massa fuori Mosca: l'ex poligono dell'NKVD a Butovo e l'ex sovchoz a Kommunarda. Continua a raccogliere storie e a catalogarle fino alla pubblicazione del "Libro della memoria" di Butovo. Ne sono usciti, per ora, otto volumi. Di libri simili in Russia ce ne sono oggi ottantanove: le fosse comuni che si scoprono sembrano non finire mai. Quelle ritrovate a oggi sono seicento. I fucilati dal 1918 al 1953 sono 826.645.
Nel poligono di Butovo è stata costruita una chiesa. In una bacheca di vetro ci sono: una scarpa sfondata, alcuni cenci, manciate di terra, proiettili... e un foglio di carta, il verbale di interrogatorio di un anziano sacerdote, con la firma dell'imputato all'inizio e alla fine, non sembra fatta dalla stessa mano, non era più la stessa persona quella che poche ore dopo aver scritto il suo nome in bella calligrafia non riusciva a portare a termine uno scarabocchio tremolante.
Il lavoro di Lidija Golovkova, film come quello di Wajda non sono una commiserazione nel ricordo, non costituiscono una sorta di risarcimento per la dimenticanza. Sono opere indispensapili per l'identità personale di molti e per la nostra identità collettiva. L'uomo non si differenzia dall'animale per il linguaggio, ma per la capacità di coscienza. E la capacità di coscienza, che è un atto del presente, è capacità di memoria. La memoria è, infatti, qualcosa di più del ricordo perché dà statura e consistenza all'altrimenti effimero istante presente. Un popolo separato dalle sue radici storiche, o impossibilitato a ricordarle, è disponibile a qualsiasi progetto totalitario.
Ma c'è un'altra conseguenza della memoria, e non si tratta di un effetto collaterale. È nel titolo del libro di Anna Parravicini: "Liberi". La memoria rende liberi. Come al solito qualcuno l'ha già detto meglio di noi: «A che serve la memoria? A liberarsi!» (T.S. Eliot, "Quattro quartetti").

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