Libano, una guerra anche all'arte e alla storia

Libano, una guerra anche all'arte e alla storia
Marco Innocente Furina
L'Unità 11-08-2006

Essi stanno ai margini del la Foresta! Osservano meravigliati l'altezza dei Cedri! Erano come estasiati all'entrata nel bosco (...)! Essi guardarono la montagna dei cedri (...)! I cedri si alzavano maestosi e lussureggianti sulla montagna! La loro ombra era gradevole! Dava la felicità a chi vi entrava!.
Migliaia di anni prima della nostra era, molto prima dell'iliade e dell'Odissea, la prima opera letteraria dell'umanità, l'Epopea di Gilgamesh, parlava del Libano e delle sue foreste. Da quel giorno il Libano sarà conosciuto per sempre come il Paese dei Cedri, albero che ancor oggi campeggia al centro della sua bandiera. Gilgarnesh, mitico re sumero di Uruk, si era recato sui quei monti per prendere il legname che invece mancava nella sua terra. Da quell'altezza l'eroe mesopotamico contemplò il sole tramontare sul mare vicino. E fu così che il Mediterraneo, nelle tavolette cuneiformi, divenne «il mare superiore del sole calante». Era l'inizio della storia. Anche l'agricoltura mosse, fra Libano e Palestina, i suoi primi passi. A Gerico sono stati trovati i primi residui di semi fossili. Per non parlare della scrittura. Certo, l'idea di tradurre le parole in segni è più antica, nasce a Sumer e in Egitto. Ma furono i fenici, i mercanti per eccellenza, a inventare la scrittura come la conosciamo. Avevano bisogno di uno strumento agile, veloce, grazie al quale stipulare contratti, prendere appunti: ed ecco l'alfabeto, una trentina di segni o giù di lì all'inizio. Un metodo che piacque ai greci che lo imitarono e da questi gli etruschi che lo passarono ai romani, con l'alfabeto dei quali, lettera più lettera meno, ancora scriviamo. I Fenici dicevamo: comprare a sud e a est e vendere a o est, secondo l'antica regola della mezzaluna fertile. Ed ecco che li trovarno sparsi per tutto il Mediterraneo: Cipro, l'Egitto, Nord-Africa, Sicilia, Sardegna, Spagna, partiti dalle loro belle città della costa siro-libanese: Biblos, Sidone. Tiro. Tiro, un'isola in mezzo al mare, resistette a tutti: assiri, persiani ma non ad Alessandro il Grande. Venne allora il turno dei greci in medioriente. Qualche secolo dopo un generale romano dal ciuffo biondo ridusse Siria e Palestina a provincia romana. Si chiamava Pompeo, nome a cui lui preferiva aggiungere Magno. Era la stessa provincia dove il figlio di un falegname cominciò a predicare di amare il proprio nemico. Ma nulla dura in eterno, neanche Roma. Dissolto l'impero fu il turno dei bizantini clic all'inizio del VII secolo non resistettero agli arabi. La popolazione tuttavia rimase in maggioranza cristiana, almeno fino alle crociate. Le repubbliche marinare, Riccardo cuor di Leone, il Saladino, l'oriente tornò ad affascinare l'Europa che era quella dei castelli e delle corti. Mamma li turchi. San Giovanni d'Acre e Tiro veneziana, ultimi avamposti cristiani, cadono nel 1292. I mammelucchi conquistano la terra santa. Ci vorrà la prima guerra mondiale - e Lawrence d'Arabia - per strappargliela. Quanta storia. E la storia non passa mai invano. Lascia i suoi segni, le sue testimonianze. D'arte e cultura. Una cultura che oggi è in forte pericolo. Perché in quei luoghi è tornata la guerra e la guerra non risparmia nessuno. Cancella tutto, anche la memoria. «Il conflitto israelo-libanese rischia di produrre danni gravissimi in quei territori. Penso a Sidone, che è un gioiellino; penso a Tiro, dove si sta scavando il forte o San Giovanni d'Acri dove c'è la cittadella dei cavalieri>. A lanciare l'allarme sulle conseguenze che il conflitto israelo-palestinese potrebbe arrecare al patrimonio artistico di quelle regioni è il professor Piero Pierotti docente di scienze dei beni culturali all'Università di Pisa e presidente della sezione italiana di Art Watch international, un'associazione che ha fra i suoi scopi la tutela del patrimonio artistico mondiale. «Il rischio è tanto maggiore in quanto le testimonianze storico-artistiche in pericolo - continua il professore - consistono essenzialniente in un'architettura ancora “vissuta” e usata. In altre parole mancano i monumenti grandi e famosi, il patrimonio storico è integrato nei tessuti urbani e per questo meno facilmente difendibile». Insomma, è la continuità degli insedianienti umani in quei stessi luoghi da millenni a costituire un problema. «Si, specialmente gli antichi centri mussulmani costruiti in pietra sono dei veri e propri bunker utilizzati nei modi più vari al loro interno». Non tutte le distruzioni sono però solo frutto del caso. La guerra, si sa, è anche guerra della memoria. Distruggere le testimonianze storiche del nemico alla lunga è più utile clic eliminare una fabbrica o una ferros ia. «A Nablus, l'antica Neapolis, l'esercito israeliano, a forza di far la caccia all'uomo, ha distrutto quasi completamente l'antico centro storico mussulmano. I militari hanno demolito apposta l'antica grotta di Santa Barbara, una santa cristiana divenuta importante anche per gli islamici». La guerra nell'ex—Jugoslavia non è passata invano. Ma la conseguenza forse più devastanto della distruzione del patrimonio storico-artistico di Israele e Libano è l'impossibilità di far rinascere in quei luoghi un'economia del turismo. «Il patrimonio culturale è una grossa risorsa. Una risorsa però che per essere sfruttata ha bisogno, Come condizione di partenza, di pace. Facendo una battaglia per la difesa del patri nonio anisuco noi difendiamo una ragione economica forte che ci lega alla richiesta di pace. Mi spiego: se in quell'area si perde anche questa opportunità, gli Stati si impoveriranno e indeboliranno ulteriormente, diventando più facilmente vitlima dei signori delle armi. Senza contare che verranno a dipendere in misura sempre maggiore dalle rimesse clic vengono dai gruppi estremisti rifugiati all'estero. Un'altra ragione di guerra dunque». E tuttavia nel gran parlare che pure si fa su tutti i media mondiali di questo nuovo conflitto mediorientale, le preoccupazioni per la distruzione dei segni dello stroardinario passato di quelle terre sembrano restare del tutto assenti. «Io mi sono mosso — ammette il professor Pierotti - perché sospetto che non lo abbia fatto nessuno. Il guaio è che la cultura diftiisa non fa notizia. Le racconto un aneddotto: nel 1944 a Pisa si diffuse la voce che all'interno della Torre pendente si nascondesse un coniando tedesco. A quel punto gli americani volevano distruggerla. Non so chi abbia messo in giro la voce, probabilmente gli stessi tedeschi clic solevano spingere gli alleati a commettere questo crimine contro l'umanità. Tuttavia gli americani non la distrussero. Proprio quando stavano per farlo, un giovane ufficiale si prese la responsabilità di verificare prima l'informazione. Ecco in Libano non «è la torre di Pisa». Che dire, resta solo la pace.

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