Sahara, arte a rischio tra vandali e incuria

il Riformista 19.4.09
Sahara, arte a rischio tra vandali e incuria
di Savino di Lernia

ALLARME. Alcune antichissime pitture nel Tadrart Acacus sono state imbrattate da ignoti. Un danno inestimabile contro una "cappella sistina" dell'antichità, patrimonio dell'Unesco. La Missione archeologica della Sapienza a Tripoli fa il possibile. Ma i turisti sono sempre di più. E i siti sempre meno protetti.

La prima e-mail arriva tre giorni fa: una collega, amante del deserto e conoscitrice di ogni piega dell'Acacus, nel cuore del Sahara libico, mi accenna ad un episodio di vandalismo contro alcuni dipinti di età preistorica. Poi una serie concitata di telefonate, messaggi sms, e la casella di posta del sito web della missione intasata di lettere dei (tanti) turisti che visitano le pitture rupestri del Sahara, da oltre venti anni Patrimonio Unesco dell'Umanità. Se all'inizio pensavo fosse un tamtam non del tutto fondato - come spesso accade per le cose africane, e libiche in particolare - la telefonata concitata del Presidente del Dipartimento delle Antichità di Libia, Giuma Anag, ha spazzato via ogni dubbio. Alcune siti nella zona di Wadi Awiss nel Tadrart Acacus, con pregevolissime pitture di età neolitica, sono stati imbrattati, non si sa ancora bene se con vernice spray, o con l'olio esausto di uno dei tanti fuoristrada che ogni giorno trasportano centinaia di turisti a visitare le testimonianze di civiltà antichissime: per usare una metafora abusata, una delle straordinarie "cappelle sistina" dell'umanità più antica.
Non sappiamo ancora molto - a parte che l'entità del danno è ingente, diversi metri di roccia dipinta completamente devastata -, certo è che quel che è avvenuto alcuni giorni fa potrebbe ripetersi, danneggiando in modo irreparabile altri contesti. Le pitture e i graffiti sono accessibili a chiunque, basta un semplice desert pass che costa pochi euro, e i controlli sono affidati a poche pattuglie di polizia turistica che devono coprire un territorio enorme, oltre 6mila kmq. Il Dipartimento di Archeologia di Tripoli sta organizzando una spedizione per verificare l'entità del danno: alcuni restauratori, al seguito della Missione Archeologica Italo-Libica della Sapienza, valuteranno le possibilità di ripristino, che appaiono per ora assai remote.
Le montagne dell'Acacus, al confine tra Libia e Algeria, nel cuore del Sahara, sono un luogo di formidabile bellezza, pinnacoli di arenaria rossastra incisi da ampie vallate sabbiose. Qui, lungo i tracciati di fiumi estinti, si snodano quasi senza soluzione di continuità decine di grotte e ripari decorati con pitture e graffiti di età neolitica, risalenti cioè ad un periodo tra 10000 e 3000 anni fa. Queste pitture, aldilà della notevolissima raffinatezza e maturità artistica, rivelano tratti scomparsi di civiltà sahariane con ricchezza di particolari e minutezza di dettagli, invisibili alla normale ricerca archeologica.
Da oltre cinquant'anni, la Missione Archeologica Italo-Libica della Sapienza lavora in strettissima collaborazione con il Dipartimento delle Antichità Libiche in queste regioni, mappando e documentando un patrimonio di livello straordinario. Graffiti e pitture rappresentano un antico universo completamente scomparso: animali di savana, popolazioni di etnie diverse, attività di allevamento di bovini istoriano con una densità senza pari le vallate di queste montagne sahariane. Le pitture, eseguite con pennelli finissimi adoperando ocre di varie tonalità, dal rosso al verde, sono certamente il cuore dell'arte sahariana, e i dipinti deturpati dell'Awiss non fanno eccezione: figure umane, personaggi armati, giraffe, oramai invisibili sotto uno spesso strato nerastro.
Le ricerche archeologiche italiane - lente, complesse e delicate - hanno rivelato alla comunità scientifica internazionale un luogo di importanza speciale per comprendere e meglio posizionare le dinamiche del popolamento umano in Africa settentrionale. Si è realizzato, in questo lembo di Sahara, uno di quei miracoli tipicamente italici, dove l'intreccio quasi casuale di capacità, competenze e coraggio ha di fatto prodotto - come mi diceva tempo fa Claudio Pacifico, allora Ambasciatore a Tripoli, e oggi al Cairo - una delle eccellenze culturali in campo internazionale. In oltre mezzo secolo, la Missione ha lavorato continuativamente ed efficacemente, indipendentemente dalla temperatura, spesso bollente in superficie, a dalle relazioni politiche bilaterali.
Da alcuni anni, e in particolare dopo l'abolizione dell'embargo, la Libia è tornata prepotentemente alla ribalta internazionale e il turismo, come naturale conseguenza, è cresciuto in modo formidabile: sono oltre 120mila le persone che ogni anno, da settembre a maggio, passano in queste regioni per ammirare la bellezza di un'arte antichissima e drammaticamente fragile. Esposta ai danni del clima desertico, alle terribili escursioni termoclastiche, alla violenza del vento, oggi l'arte rupestre dell'Acacus deve subire un ulteriore sfregio, fatto di vandalismi stupidi e violenti. Come quest'ultimo di pochi giorni fa.
Dal 2000, la Missione ha intensificato gli sforzi a ogni livello per ottenere un risultato: rendere queste regioni un luogo protetto, un Parco Nazionale, con personale formato e competente, capace di assistere e guidare i visitatori. Nel 2006, a seguito di una richiesta del Dipartimento delle Antichità libiche, sono stati suggeriti alcuni provvedimenti di minima, come recintare in modo simbolico - una semplice barriera di foglie di palma, alta poco più di un metro - i ripari con le pitture più significative, al fine di abolire, come suggerisce l'Unesco, quella sensazione classica di terra incognita che i viaggiatori hanno nell'attraversare luoghi deserti, ritenuti a torto spazi di nessuno e senza tempo. Ma ci sono anche risvolti politici e culturali che non possono essere ignorati. La Libia ospita una incredibile serie di siti archeologici: basti pensare alle splendide città di età greca e romana della costa (Sabratha, Leptis Magna, Cirene, solo per citarne alcune), alle straordinarie evidenze medievali di Ghadames, fino alla medina di Tripoli. È complicato operare scelte, spesso dolorose, dedicando risorse e sforzi ad alcuni luoghi e tralasciandone altri. Un possibile spiraglio potrebbe essere offerto dal recente "Trattato di Amicizia" tra Italia e Libia, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 e ratificato da poche settimane dal Parlamento Italiano, che prevede tra i vari punti un rinnovato impulso alla collaborazione nel settore archeologico.
Paradossalmente, gli sfregi vandalici delle antiche pitture rupestri ci offrono l'opportunità per intervenire immediatamente, non solo per il restauro dei dipinti imbrattati, ma specialmente per realizzare con prontezza quelle iniziative che necessitano al momento uno sforzo politico e culturale: la Missione della Sapienza e il Dipartimento delle Antichità di Tripoli non possono sostenere da soli quanto oramai sta accadendo. La lunga consuetudine, che segna in modo indelebile la Missione nell'Acacus, potrebbe però essere una chiave di volta, e funzionare da volano virtuoso e operativo per avviare un processo di protezione e tutela non più rimandabile.
Nel 1996, oramai quasi quindici anni fa, Amgahr Hammadani, l'anziano capo Tuareg dell'Acacus, ci diceva sconsolato di portare via le attrezzature di scavo che ogni anno lasciavamo in un riparo sotto roccia: «troppa gente, troppe macchine: non è più sicuro qui». Il destino dell'Acacus, come di altre zone desertiche, immense e desolate, passa attraverso le parole di un vecchio Tuareg. La sicurezza di questo patrimonio, per le future generazioni, libiche e non solo, dovrà basarsi su una nuova consapevolezza, e su un modo diverso di affrontare questo formidabile deserto dipinto.

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