Il faraone delle oasi. Dal deserto libico spunta un rivale dei re egizi
Il faraone delle oasi. Dal deserto libico spunta un rivale dei re egizi
Maurizio Assalto
La Stampa, 9 ottobre 2006
SCOPERTA DI UN EGITTOLOGO ITALIANO NELLE SABBIE DI EL-BAHREIN: A OVEST DEL NILO ESISTEVA UN REGNO POTENTE CHE CONTROLLAVA LE ACQUE E LE VIE CAROVANIERE
SI faceva chiamare «re dell’alto e del basso Egitto», proprio come i faraoni, e come quelli «figlio di Ra», il grande dio del sole, e in aggiunta «figlio di Shu», il die dell'aria luminosa che si stende fra terra e cielo. Ma non amministrava il suo regno da Tebe, né da Menfi, né da alcuno dei centri politico-cerimoniali lungo il Nilo. E però non era un millantatore: era un autentico (forse un pò vanesio) faraone che regnava sulle oasi e sulla sabbia senza fine del deserto libico, a venti giorni di marcia dalla fertile valle dei suoi omologhi egiziani. Un faraone-bis, uno stravagante clone occidentale. Di questo personaggio inimmaginato, e del suo ipotizzabile reame, sono emerse le tracce, ora, per la prima volta. Ed è una novità che, senza abusare di un vieto luogo comune («i libri di storia da riscrivere»...), certo mette a fuoco un quadro geopolitico molto più complesso di quanto non si credesse, oltre a rendere un'immagine meno solenne dei sovrani egiziani e della loro reale egemonia. I faraoni erano tradizionalmente raffigurati nell'atto di schiacciare i loro nemici-confinanti: schiacciavano a Est (i beduini asiatici), a Sud (i neri nubiani), a Ovest (i libici). Ebbene, tutto, o quasi, da dimenticare, Almeno a Occidente, sappiamo adesso che dovevano venire a patti con un potente vicino.
Il cartiglio reale. La scoperta si deve a un archeologo italiano, Paolo Gallo dell'Università di Torino, che ha presentato un primo rapporto lo scorso giugno a Parigi, davanti ai suoi antichi maestri della Sorbona, e ai primi di settembre a un summit egittologico mondiale che si è tenuto a Montepulciano. Quarantacinque anni, allievo di Jean Leclant, Gallo ha in corso due scavi, nell'isola di Nelson davanti a Alessandria e nell'oasi di el-Bahrein, 140 km a Sud-Est della più celebre oasi di Siwa, dove sorgeva il santuario dell'oracolo di Amon visitato da Alessandro il Grande. Ed è qui che comincia la storia, tre anni fa.
El-Bahrein è un toponimo arabo che significa «due laghi». Oggi è una zona disabitata, ma nell'antichità ospitava un villaggio di cui si vedono ancora chiare le tracce, abbandonato in epoca bizantina quando le rotte commerciali presero altre direzioni. Gallo, specializzato in scavi d'urgenza, era stato richiamato da un cartiglio reale che affiorava dalla sabbia, indicando che là sotto doveva esserci dell'altro. Bisognava intervenire in fretta perché c'erano stati attacchi di tombaroli. «Sapevamo di lavorare su un edificio monumentale importante», ricorda l'archeologo. «Quel che non ci aspettavamo, in un luogo così sperduto, era di trovare un tempio faraonico ricoperto di geroglifici e rilievi policromi. L'unico altro esempio era quello di Siwa».
Dieci tonnellate di calcare. La prima campagna di scavi impegnò una quarantina di persone: quattro-cinque italiani, più gli operai e la scorta armata, perché in questo lembo d'Egitto vicino ai (teorici) confini con la Libia imperversano i contrabbandieri. Due mesi di lavoro, 6 mila litri di benzina consumati, 18 mila litri d'acqua. La missione (finanziata dal Ministero degli Esteri e da sponsor privati, tra cui la Fondazione Crt e quella del San Paolo, oltre che dal mecenatismo di un industriale torinese appassionato di deserti, Massimo Foggiai) aveva piantato le tende intorno a una collina che ospitava la necropoli di età tardo-faraonica, già saccheggiata. In una camera sepolcrale, svuotata dalle ossa, era stata sistemata la cucina, in un'altra il generatore.
Man mano che erano recuperati dalla sabbia, i grandi blocchi calcarei del tempio venivano trasportati a Marsa Matruh, un piccolo centro sulla costa mediterranea. Alla fine, dopo il terzo anno di scavi, erano dieci tonnellate di materiale da ripulire e restaurare. Si accertò che anche a el-Bahrein la divinità principale era Amon, il dio tebano diventato popolarissimo nel Nuovo Regno, e da un'iscrizione si scoprì il nome antico del villaggio, Ighespep (un oscuro toponimo Ubico che glì egiziani si erano limitati a trasporre nella loro scrittura). L'edificio era in rovina già in epoca romana, ma gli archeologi hanno potuto ricostruirne la pianta. «Un tempietto, per la verità», riconosce Gallo. «Venti metri per dieci: siamo in periferia, non dimentichiamolo. .. Ma a Siwa il tempio dell'oracolo ha le stesse dimensioni, con la differenza che quello di el-Bahrein è epigraficamente superiore, senza gli errori che nell’altro infarciscono il testo geroglifico: le risorse umane e finanziarie che in questo luogo devono essere state mobilitate rivelano un interesse particolare». Come se si trattasse di una capitale.
Unamon figlio di Nachtit. In particolare, quel che colpiva era il programma decorativo: «Qualche cosa di molto strano. Tutta l'ala Est, rivolta verso l'Egitto, era ornata con un rilievo incentrato su Nectanebo I - il capostipite della XXX e ultima dinastia faraonica indipendente, re dal 378 al 360 a.C. - rappresentato con le consuete corone. Nell'ala Ovest, invece, rivolta verso la Libia, il protagonista cambia: è un sovrano non più egiziano, anche se veste e si atteggia all'egiziana». Sul capo, montata su un diadema, porta una piuma di struzzo: un attributo etnico delle tribù libiche, come pure libici sono i quattro riccioletti che fuoriescono dal fondo della parrucca. Il fatto stesso che sia raffigurato sulla parete di un tempio lo qualifica come un personaggio molto importante, e l'atto di offrire l'oasi a Amon è di quelli che si addicono a un faraone. Ma per arrivare a identificarlo ci sono voluti tre anni. Bisognava, prima, che le iscrizioni tornassero leggibili.
Soltanto negli ultimi mesi, da un blocco di calcare con tre cartigli, è emerso il nome del misterioso personaggio: Unamon, figlio di Nachtit. Era già noto da un'iscrizione di Siwa, dove però si presentava in maniera più dimessa. I titoli che si attribuiva a el-Bahrein, appropriandosi la tradizione millenaria dei faraoni e fantasiosamente elaborandola, rivelano la grana grossa del provinciale sedotto dagli splendori reali nilotici: «Horo forte di braccio», «lo sbaragliatore», «il potente del deserto di Shu», «il grande capo dei deserti». E appunto (più chiaro di così...) «re dell'alto e del basso Egitto». A questo punto si è aperto uno scenario tutto nuovo.
Per la prima volta, dai dati materiali è uscita una conferma del racconto di Erodoto, che a più riprese parla degli Ammoni (il popolo degli adoratori di Amon) stanziati intorno a Siwa, organizzati in un remo indipendente e governati da un proprio re: 70-80 anni dopo lo storico greco, e oltre un secolo e mezzo dopo i fatti narrati, in quella zona esisteva ancora un sovrano - non soltanto alcuni sparsi capitri-bù, come avevamo finora creduto -con un dominio molto più esteso di quanto si potesse pensare.
La valle dell'ombra Questo faraone, sostiene Gallo, controllava tutto il sistema di oasi e oasine che punteggiano la sterminata distesa di sabbia a Est e a Ovest di el-Bahrein, curava che fossero mantenute efficienti e in ordine, e le piste tra l'una e l'altra si conservassero in buono stato. Ancora oggi i berberi che si spostano attraverso il deserto dal lembo occidentale dell'Egitto al Sud-Est dell'Algeria, parlando una lingua propria che è il siwi, considerano le oasi un insieme e lo chiamano uadi drah, valle dell'ombra: un fossile di identità culturale che affonda le radici nell'antichità.
Unamon e i suoi predecessori e successori avevano in pugno l'acqua e le rotte carovaniere, ossia le risorse logistiche basilari per chi affrontava il deserto. Con lui, con loro, i faraoni del Nilo dovevano trovare un modus rivendi, scendere a compromessi: foss'anche quello inaudito di condividere le pareti di uno stesso tempio. Restano da determinare i confini del loro regno, e per questo bisognerà spostarsi a scavare in Libia. Gli archeologi si stanno già attrezzando.
Maurizio Assalto
La Stampa, 9 ottobre 2006
SCOPERTA DI UN EGITTOLOGO ITALIANO NELLE SABBIE DI EL-BAHREIN: A OVEST DEL NILO ESISTEVA UN REGNO POTENTE CHE CONTROLLAVA LE ACQUE E LE VIE CAROVANIERE
SI faceva chiamare «re dell’alto e del basso Egitto», proprio come i faraoni, e come quelli «figlio di Ra», il grande dio del sole, e in aggiunta «figlio di Shu», il die dell'aria luminosa che si stende fra terra e cielo. Ma non amministrava il suo regno da Tebe, né da Menfi, né da alcuno dei centri politico-cerimoniali lungo il Nilo. E però non era un millantatore: era un autentico (forse un pò vanesio) faraone che regnava sulle oasi e sulla sabbia senza fine del deserto libico, a venti giorni di marcia dalla fertile valle dei suoi omologhi egiziani. Un faraone-bis, uno stravagante clone occidentale. Di questo personaggio inimmaginato, e del suo ipotizzabile reame, sono emerse le tracce, ora, per la prima volta. Ed è una novità che, senza abusare di un vieto luogo comune («i libri di storia da riscrivere»...), certo mette a fuoco un quadro geopolitico molto più complesso di quanto non si credesse, oltre a rendere un'immagine meno solenne dei sovrani egiziani e della loro reale egemonia. I faraoni erano tradizionalmente raffigurati nell'atto di schiacciare i loro nemici-confinanti: schiacciavano a Est (i beduini asiatici), a Sud (i neri nubiani), a Ovest (i libici). Ebbene, tutto, o quasi, da dimenticare, Almeno a Occidente, sappiamo adesso che dovevano venire a patti con un potente vicino.
Il cartiglio reale. La scoperta si deve a un archeologo italiano, Paolo Gallo dell'Università di Torino, che ha presentato un primo rapporto lo scorso giugno a Parigi, davanti ai suoi antichi maestri della Sorbona, e ai primi di settembre a un summit egittologico mondiale che si è tenuto a Montepulciano. Quarantacinque anni, allievo di Jean Leclant, Gallo ha in corso due scavi, nell'isola di Nelson davanti a Alessandria e nell'oasi di el-Bahrein, 140 km a Sud-Est della più celebre oasi di Siwa, dove sorgeva il santuario dell'oracolo di Amon visitato da Alessandro il Grande. Ed è qui che comincia la storia, tre anni fa.
El-Bahrein è un toponimo arabo che significa «due laghi». Oggi è una zona disabitata, ma nell'antichità ospitava un villaggio di cui si vedono ancora chiare le tracce, abbandonato in epoca bizantina quando le rotte commerciali presero altre direzioni. Gallo, specializzato in scavi d'urgenza, era stato richiamato da un cartiglio reale che affiorava dalla sabbia, indicando che là sotto doveva esserci dell'altro. Bisognava intervenire in fretta perché c'erano stati attacchi di tombaroli. «Sapevamo di lavorare su un edificio monumentale importante», ricorda l'archeologo. «Quel che non ci aspettavamo, in un luogo così sperduto, era di trovare un tempio faraonico ricoperto di geroglifici e rilievi policromi. L'unico altro esempio era quello di Siwa».
Dieci tonnellate di calcare. La prima campagna di scavi impegnò una quarantina di persone: quattro-cinque italiani, più gli operai e la scorta armata, perché in questo lembo d'Egitto vicino ai (teorici) confini con la Libia imperversano i contrabbandieri. Due mesi di lavoro, 6 mila litri di benzina consumati, 18 mila litri d'acqua. La missione (finanziata dal Ministero degli Esteri e da sponsor privati, tra cui la Fondazione Crt e quella del San Paolo, oltre che dal mecenatismo di un industriale torinese appassionato di deserti, Massimo Foggiai) aveva piantato le tende intorno a una collina che ospitava la necropoli di età tardo-faraonica, già saccheggiata. In una camera sepolcrale, svuotata dalle ossa, era stata sistemata la cucina, in un'altra il generatore.
Man mano che erano recuperati dalla sabbia, i grandi blocchi calcarei del tempio venivano trasportati a Marsa Matruh, un piccolo centro sulla costa mediterranea. Alla fine, dopo il terzo anno di scavi, erano dieci tonnellate di materiale da ripulire e restaurare. Si accertò che anche a el-Bahrein la divinità principale era Amon, il dio tebano diventato popolarissimo nel Nuovo Regno, e da un'iscrizione si scoprì il nome antico del villaggio, Ighespep (un oscuro toponimo Ubico che glì egiziani si erano limitati a trasporre nella loro scrittura). L'edificio era in rovina già in epoca romana, ma gli archeologi hanno potuto ricostruirne la pianta. «Un tempietto, per la verità», riconosce Gallo. «Venti metri per dieci: siamo in periferia, non dimentichiamolo. .. Ma a Siwa il tempio dell'oracolo ha le stesse dimensioni, con la differenza che quello di el-Bahrein è epigraficamente superiore, senza gli errori che nell’altro infarciscono il testo geroglifico: le risorse umane e finanziarie che in questo luogo devono essere state mobilitate rivelano un interesse particolare». Come se si trattasse di una capitale.
Unamon figlio di Nachtit. In particolare, quel che colpiva era il programma decorativo: «Qualche cosa di molto strano. Tutta l'ala Est, rivolta verso l'Egitto, era ornata con un rilievo incentrato su Nectanebo I - il capostipite della XXX e ultima dinastia faraonica indipendente, re dal 378 al 360 a.C. - rappresentato con le consuete corone. Nell'ala Ovest, invece, rivolta verso la Libia, il protagonista cambia: è un sovrano non più egiziano, anche se veste e si atteggia all'egiziana». Sul capo, montata su un diadema, porta una piuma di struzzo: un attributo etnico delle tribù libiche, come pure libici sono i quattro riccioletti che fuoriescono dal fondo della parrucca. Il fatto stesso che sia raffigurato sulla parete di un tempio lo qualifica come un personaggio molto importante, e l'atto di offrire l'oasi a Amon è di quelli che si addicono a un faraone. Ma per arrivare a identificarlo ci sono voluti tre anni. Bisognava, prima, che le iscrizioni tornassero leggibili.
Soltanto negli ultimi mesi, da un blocco di calcare con tre cartigli, è emerso il nome del misterioso personaggio: Unamon, figlio di Nachtit. Era già noto da un'iscrizione di Siwa, dove però si presentava in maniera più dimessa. I titoli che si attribuiva a el-Bahrein, appropriandosi la tradizione millenaria dei faraoni e fantasiosamente elaborandola, rivelano la grana grossa del provinciale sedotto dagli splendori reali nilotici: «Horo forte di braccio», «lo sbaragliatore», «il potente del deserto di Shu», «il grande capo dei deserti». E appunto (più chiaro di così...) «re dell'alto e del basso Egitto». A questo punto si è aperto uno scenario tutto nuovo.
Per la prima volta, dai dati materiali è uscita una conferma del racconto di Erodoto, che a più riprese parla degli Ammoni (il popolo degli adoratori di Amon) stanziati intorno a Siwa, organizzati in un remo indipendente e governati da un proprio re: 70-80 anni dopo lo storico greco, e oltre un secolo e mezzo dopo i fatti narrati, in quella zona esisteva ancora un sovrano - non soltanto alcuni sparsi capitri-bù, come avevamo finora creduto -con un dominio molto più esteso di quanto si potesse pensare.
La valle dell'ombra Questo faraone, sostiene Gallo, controllava tutto il sistema di oasi e oasine che punteggiano la sterminata distesa di sabbia a Est e a Ovest di el-Bahrein, curava che fossero mantenute efficienti e in ordine, e le piste tra l'una e l'altra si conservassero in buono stato. Ancora oggi i berberi che si spostano attraverso il deserto dal lembo occidentale dell'Egitto al Sud-Est dell'Algeria, parlando una lingua propria che è il siwi, considerano le oasi un insieme e lo chiamano uadi drah, valle dell'ombra: un fossile di identità culturale che affonda le radici nell'antichità.
Unamon e i suoi predecessori e successori avevano in pugno l'acqua e le rotte carovaniere, ossia le risorse logistiche basilari per chi affrontava il deserto. Con lui, con loro, i faraoni del Nilo dovevano trovare un modus rivendi, scendere a compromessi: foss'anche quello inaudito di condividere le pareti di uno stesso tempio. Restano da determinare i confini del loro regno, e per questo bisognerà spostarsi a scavare in Libia. Gli archeologi si stanno già attrezzando.
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